Dall’“Europe des Patries” all’“Europe des partis”: quale futuro per i partiti europei?
Dall’“Europe des Patries” all’“Europe des partis”: quale futuro per i partiti europei?

Dall’“Europe des Patries” all’“Europe des partis”: quale futuro per i partiti europei?

Avv. Carla Di Lello

Fin da 1978, David Marquand – l’inventore del termine deficit democratico – disse che per avere un’Europa veramente democratica si sarebbe dovuta spostare l’attenzione dall’“Europe des Patries”, basati sulle affiliazioni e sulle identità nazionali, all’“Europe des partis”, dove un sistema di partiti europeo avrebbe prevalso nella politica dell’Ue.

All’importanza del ruolo dei partiti non si può certo dire che nella codificazione europea non sia stata riservata la giusta attenzione. Ed infatti, l’art. 191 del Trattato di Roma afferma che i partiti politici a livello europeo sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione contribuendo a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione, e, analogamente, l’art. 12 della Carta dei diritti sostiene che “i partiti politici a livello dell’Unione contribuiscono ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione” .

Malgrado ciò, i partiti europei non sono ancora riusciti ad essere una concreta espressione della volontà dei propri cittadini. Un sistema democratico ed efficace di partiti dovrebbe avere come prima diretta conseguenza il fatto che i loro membri si comportino in senso coesivo “sopranazionale”, piuttosto che secondo un’affiliazione nazionale.

Attualmente invece le elezioni a livello europeo non sarebbero nient’altro che una competizione “nazionale” di secondo livello. I candidati scelti a livello nazionale risponderebbero solo nei confronti delle organizzazioni centrali di partito del paese di appartenenza. In questa situazione un rafforzamento del Parlamento europeo sarebbe controproduttivo in assenza di un parallelo rafforzamento della rappresentanza partitica.

Esaminando, poi, la concorrenza dei partiti nel sistema Ue, si nota che non esiste il fenomeno delle grandi coalizioni. Questo può essere spiegato principalmente col fatto che il sistema politico nell’Unione assomiglia ad un sistema presidenziale di separazione dei poteri, dove l’esecutivo non dipende dalla maggioranza parlamentare, è direttamente eletto e non può sciogliere il parlamento. In questo sistema non c’è necessità di un supporto stabile all’esecutivo, ma al massimo di coalizioni definite case-by-case. La necessità di avere una coesione si rende necessaria solo quando ci si debba “coalizzare” per avere più possibilità di influire sull’ordine del giorno. Il Parlamento europeo, in sostanza, non lavora seguendo logiche maggioritarie, bensì in funzione di schieramenti interistituzionali (come si conviene, del resto, alla sua funzione di co-legislatore),

Si è molto discusso sulla opportunità di una procedura elettorale comune. A tal riguardo, al fine di rafforzare “la coscienza politica europea” e di favorire “lo sviluppo dei partiti politici europei”, nel 1998 veniva avanzata una proposta legislativa da parte del Parlamento europeo sulla definizione di principi elettorali comuni (Risoluzione Anastassopoulos, doc. PE A4-0212/98 e GUCE C 292 del 21 settembre 1998), in cui si proponeva la creazione di una “circoscrizione trasversale paneuropea”, attribuendo una percentuale di seggi nell’ambito di una circoscrizione unica formata dal territorio degli Stati membri.

Il Consiglio, però, cambiò significativamente il titolo della proposta parlamentare e decise di non accogliere l’innovativa formulazione di una circoscrizione unica europea. Così nel 2002 il Consiglio (Decisione del Consiglio del 25 giugno e 23 settembre 2002, in GUCE, L 283, 21 ottobre 2002.), con l’approvazione del Parlamento, emendò l’atto riguardo alle elezioni, sancendo e ribadendo il principio della rappresentazione proporzionale su base nazionale. Questo atto ha rappresentato una decisa nota d’arresto delle ambizioni parlamentari di una propria legge elettorale comune in grado di assicurarne l’indipendenza. Si è poi suggerito di prevedere a livello nazionale una quota minima riservata a candidati di altra cittadinanza europea per differenziare i partiti europei da quelli nazionali. Ma questa proposta ha trovato poco seguito.

La tendenza a riservare ai partiti politici europei un ruolo sempre più marginale, è stata confermata dal Libro Bianco sulla governance europea presentato dalla Commissione nel giugno del 2001, laddove al centro dell’attenzione si trovano piuttosto altri attori espressione della società civile (esemplare la funzione svolta dalle ONG!) e le procedure di negoziazione fra quest’ultimi per influenzare il processo decisionale europeo.

Volendo, infine, commentare in chiave critica come i diritti politici sono stati infine recepiti all’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non possiamo fare a meno di evidenziare il fatto che nella versione finale della Carta scompare l’enunciazione che pure era stata originariamente inserita, secondo cui “tutto il potere emana dal popolo”. Tale disposizione avrebbe costituito una forma di garanzia minima del collegamento fra decisioni pubbliche assunte a livello comunitario e la volontà dei cittadini europei. La sua cancellazione dimostra la diversa sensibilità che ha assistito i componenti della Convenzione nell’affrontare le questioni connesse al possesso dei diritti civili e sociali e quelle riconducibili al possesso dei diritti di partecipazione.

Il tema della rappresentanza partitica e dei diritti politici a livello europeo rappresenta, quindi, una delle questioni più complesse da risolvere non tanto o solo sul terreno delle volontà dei protagonisti della scena politica europea, bensì sul terreno culturale e delle progettazioni istituzionali. La garanzia del diritto di elettorato, e più ampiamente la disciplina della rappresentanza e delle responsabilità politiche, attorno a cui ha ruotato la democrazia degli Stati, sono state edificate e praticate sul presupposto di un potere unitario e tendenzialmente accentrato, che governasse un unico «popolo» o «nazione». In un regime di sussidiarietà dei poteri, in cui non c’è un sovrano che incarni l’unità presupposta, perché non c’è neppure un’omogeneità dei governati data per scontata, è perciò logico che ogni quesito sulle libertà o i diritti politici si complichi enormemente.

L’unica certezza è che, finchè il sistema non sarà rappresentativo a livello sovranazionale, la partecipazione politica non può che rimanere limitata all’interno degli Stati, i quali sono i soli in grado di garantire ai loro cittadini il godimento di una ragionevole vita democratica grazie alle loro strutture e modi di funzionamento